Caffè amaro
Da quando era andata in pensione, Luisa aveva preso l’abitudine di recarsi a fare colazione in una piccola caffetteria che si affacciava sul borgo medievale, giusto al centro della città.
Era un locale intimo, accogliente dal quale si vedeva via Manzoni e uno scorcio di piazza Garibaldi. Il gestore era un suo vecchio alunno e le riservava sempre il tavolo accanto alla vetrina, cosicché potesse osservare il via vai continuo delle persone.

Caffè nero, amaro, con pasticcino mignon che lasciava scegliere di volta in volta a Tina, la cameriera, nonché anima allegra di quel piccolo angolo di paradiso. Portava con sé un libro, quello della settimana; era una accanita lettrice e per fortuna gli occhi funzionavano ancora bene.
In realtà difficilmente lo apriva: lo posava accanto a sé sul tavolo, ne carezzava il dorso, scambiava qualche commento sul contenuto e lo stile con il suo ex allievo e poi si dedicava a osservare la vita, studiare gli atteggiamenti, analizzare i gesti delle persone che le sfilavano davanti agli occhi. Creava mondi, storie e relazioni che inseriva in un suo archivio virtuale. Assegnava nomi, professioni e il tempo trascorreva veloce, sereno.
Alcune scene si ripetevano.
Due giovani ognuno col proprio vocabolario di Greco in vista, mano nella mano, e la fedele amica a far loro da scorta, risalivano la via verso l’entrata del liceo classico. In quel quadro, c’era anche un sottile senso di invidia che traspariva solo, a ben guardare, quando gli altri due si scambiavano, ebbri di adolescenziale passione, un bacio famelico. Lo sguardo del “terzo incomodo” diveniva triste nella logorante attesa di poter vivere qualcosa di simile.
Poco distante una neo mamma passeggiava col suo bimbo in carrozzina, alla disperata ricerca di un modo per farlo dormire, e poter così svolgere alcune commissioni quotidiane.
C’era poi, dal Lunedì al Venerdì, l’uomo con la ventiquattrore, alto, stempiato, quasi sicuramente un avvocato, che beveva in fretta un caffè ristrettissimo, quasi ridotto a poche gocce, mangiando, altrettanto di corsa, una brioche ai cereali e senza zucchero a velo per non rischiare di macchiare giacca o cappotto. Un’apparizione fugace ma che lasciava il segno, o meglio la scia, in quanto usava un dopobarba decisamente troppo acre per i gusti di Luisa. Forse era un’arma per infastidire gli avversari; di certo disturbava l’anziana professoressa di lettere.
Non mancava di avere dei preferiti.
Accanto a lei, spesso si accomodava un padre con suo figlio. Il bambino aveva cinque anni, glielo aveva detto lui stesso al loro primo incontro, e si chiamava Matteo. Il papà, paziente, attento ma con gli occhi velati di profonda malinconia, rispondeva al nome di Piero. Lucia, la mamma, era scomparsa improvvisamente pochi mesi prima per una malattia fulminea nonché incurabile, e ora Piero aveva un enorme carico da gestire tutto solo. La vivace gioia di suo figlio, però, gli donava la forza e il sorriso che troppo spesso credeva di non possedere più. Matteo, nonostante la sua giovanissima età, si stava dimostrando più adulto del genitore nell’attraversare quell’ingiusto lutto.
-La sua forza, spesso, mi annienta. Non so come faccia.
Le aveva confidato una volta l’uomo
-I bambini trovano risorse che noi anime adulte abbiamo dimenticato. Si lasci guidare dal suo entusiasmo. Gli permetta di contagiarla. L’aiuterà a star meglio. Aiuterà entrambi. Sia sincero con lui, e vedrà che ve la caverete.
Matteo e Luisa si scambiavano piccoli regali: delle matite colorate ( lei ), un disegno, anzi uno scarabocchio che in base alle occasioni, assumeva nomi e fattezze diverse ( lui ), origami su carta colorata ( lei ), strane creature fatte col pongo ( lui ) e tanti minuscoli pensieri, libri con storie da colorare o cubi da assemblare, che rendevano quei minuti trascorsi insieme, attimi di intensa felicità. L’incombenza dell’entrata all’asilo e del lavoro paterno li costringevano a un saluto che era meno difficile, perché accompagnato dalla consapevolezza che si sarebbero rivisti il giorno dopo.
Quando pioveva, invece, era tutto estremamente frenetico, come se le lancette del tempo scorressero a velocità doppia, se non tripla. Tutti correvano impazziti, quasi non riuscissero a star dietro a quel cambiamento meteorologico. Non tutti amano le novità. Sì, ecco, forse a pensarci meglio, erano i cambiamenti in generale a essere complicati da amministrare.

Il momento più bello, però, in quelle mattinate uggiose e deliranti, era quando tutto cessava: le campanelle sancivano l’inizio delle lezioni, gli uffici si destavano cominciando le proprie attività e, per circa quindici minuti, tutto sembrava immobile.
Le gocce scendevano rallentate a bagnare la strada. Il becco per la schiuma del cappuccino, col suo nebbioso vapore, taceva. Le tazzine pulite trovavano un posto sul piano superiore della macchina del caffè e si acquietavano.
Giacomo, il gestore, le si avvicinava con un bicchiere d’acqua fresca, sottolineando la meraviglia di quel momento di impagabile Silenzio. Sorridevano e insieme assaporavano la quiete intorno a loro.
Luisa si attardava anche un paio d’ore in quel delizioso cantuccio dal profumo di caffè e pasticceria. Le piaceva, vibrava attraverso le esistenze che scorgeva ogni giorno muoversi in quello spazio. Era come un corridoio in prospettiva illuminato dalla luce di diverse stanze.

Quando poi era tempo di riattivare la circolazione e mettere in moto le attempate ossa, si alzava, pagava il suo conto, lasciando sempre più del dovuto in segno di ringraziamento per la concessione di quel privilegiato punto di osservazione, e tornava lentamente verso casa.
Era una routine fissa.
L’ex professoressa era una donna solitaria ma non sola. Era molto amata e benvoluta grazie al suo garbo, la sua matura gentilezza e quella così rara forma di diplomazia intelligente che sapeva pacare ogni animo. Ad onore del vero, riusciva anche a mandare argutamente qualcuno a “quel paese”, senza che quest’ultimo se ne accorgesse, se non quando si era già allontanata.
Sorrideva Luisa, era grata per quanto vissuto. In settantadue anni ne aveva viste di cotte e di crude, provato le più svariate gioie, e i più spettrali dolori.
Sua figlia, Claudia, viveva all’estero e saperla realizzata la rasserenava.
Più volte, in pensiero per la madre che cominciava a essere in là con gli anni, le aveva chiesto di raggiungerla, l’aveva addirittura implorata di trasferirsi, ma lei, irremovibile, aveva sempre declinato l’invito.
-Sto bene qui. Questa minuscola cittadina nata intorno al borgo mi protegge, è il mio muro di cinta, come se fossi anche io monumento storico, un bene culturale vivente. Da questo luogo non me ne vado. Non insistere.

Con lei non si poteva discutere. Ascoltava, rifletteva, cambiava raramente idea solo se lo riteneva giusto, ma una volta deciso, non si muoveva da quella posizione: una quercia secolare troppo grande e radicata per essere spostata. Non imponeva le sue ragioni, ma faceva sì che venissero rispettate.
Una mattina di fine Gennaio non si presentò a gustare il suo caffè.
Giacomo aveva il suo numero e quello della vicina di casa, una donna di cinquant’anni, di gradevole aspetto, divorziata, erborista in attività, che il venerdì le faceva compagnia nel sua visita alla caffetteria. Chiamò entrambe. Solo Laura, l’avventrice del Venerdì, rispose. Aveva le chiavi di casa di Luisa per qualunque evenienza.
La trovò nel letto sotto alla coperta che manteneva caldo il suo corpo ormai senza vita. La bocca, in una smorfia buffa, lasciava trasparire un impercettibile sorriso. Sul comodino accanto a lei, giaceva un pacchetto con dei pastelli a cera e un libricino che narrava la storia di Mario, la locomotiva.
“Per il mio piccolo amico Matteo”, era la dedica che aveva scritto prima di addormentarsi per sempre.
Pochi giorni dopo Giacomo inserì una targa sul tavolino che aveva ospitato per tanti anni la sua professoressa
A Luisa
Al caffè amaro che berrà con gli angeli.
Roberta Leonardi, 23 Luglio 2021
Sempre una piacevole lettura, molto brava!
Grazie a te, che trovi sempre il tempo di leggermi.
La forza dell’amicizia ma anche della dolcezza e della tenerezza. Grazie Roberta, un abbraccio 🌹❤️
Un abbraccio grande a te, Vincenza.
Grazie.
Una malinconica e dolcissima storia di Luisa…e il suo caffè amaro
Sì, Genny.
Grazie.
Che storia…… Brava Roberta!
Grazie infinite, Ale.
Riesci sempre ad arrivare al mio ❤️ amica dalla penna magica ✍🏻✨✨✨
Una storia bellissima … malinconia e serenità si mescolano in modo perfetto complimenti 👏🏻👏🏻 e grazie per regalarci questi bellissimi racconti 😘
Mi piace che ti senta coccolata. È un vero piacere per me.
Grazie Claudia.
Ecco sei riuscita a farmi commuovere nella sala d’aspetto del centro vaccinale. Sei uno spettacolo amica mia, sei bravissima!!! Mi trascini anche dove non vorrei andare. Non avevo bisogno di questo stamattina ma non ho potuto non affezionarmi in un attimo ai tuoi personaggi. Un piccolo viaggio come sempre. Grazie ❤️
A volte ci sembra di non averne bisogno, ma quando ci chiamano, le emozioni intendo, dobbiamo rispondere.
Lieta di averti accompagnata, e grata per le tue parole.
Grazie a te❤
È stata una bella storia
Grazie🙏
Bellissimo racconto! Malinconia e infinita dolcezza si mescolano perfettamente rendendo meno amaro il caffè di Luisa e di molte che, come lei gustano, l’essenza di chi gli sta accanto.
Grazie Rita per la tua sensibilità.
Non mi piace il caffè amaro,.. 😊 ma questo (racconto) era dolcissimo!🥰
Complimenti per tutto. Atmosfera magica e coinvolgente. ✍️👏
Grazie di cuore.