
Racconto inedito : La risata. Dedicato alle anime imprigionate.
Cari amici lettori,
oggi è il 25 Novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne. In onore di questa ricorrenza, e per ribadire il mio più sentito “NO!”, ad ogni tipo di crudeltà, abuso, maltrattamento o simili, ho pensato di pubblicare un racconto inedito.
Questa è una storia dura, cruda, che però è nata pensando a tanti fiori imprigionati, impauriti, non abituati ad amarsi, che vengono spezzati e trattati come spazzatura. Le conseguenze o le possibili reazioni, quando si verificano, sono imprevedibili.
Senza null’altro dire, vi lascio alla lettura di questo mio breve racconto inedito che mi auguro vogliate condividere con altri amici per dire insieme, con forza :
NO ALLA VIOLENZA!

La risata
Era un po’ che camminavano in quel bosco. Alma non sapeva quantificare da quanto tempo, non aveva orologio. Le sue dita erano livide. Aveva freddo. Sentiva il calore della mano della donna che la trascinava in quel sentiero assurdo, nascosto, impervio. Ne vedeva la nuca, non capiva, non sapeva chi fosse. Erano entrambe scalze. I piedi feriti, sanguinanti. Sentiva quei tagli bruciare ad ogni singolo passo. Non comprendeva cosa stesse succedendo, ma intuiva che doveva continuare, doveva fidarsi.
Chi sei?
Non è importante. Non sprecare fiato per parlare. Ti servirà per arrivare al rifugio.
Quale rifugio?
Quello dall’altra parte della pineta. C’è un lungo tratto da percorrere in mezzo alla neve. Devi mantenere le forze.
Ma tu chi sei? Come siamo arrivate qui?
Ti ho detto che non importa. Conserva il fiato.
Ma ho bisogno di sap…
Basta!
L’altra donna si voltò, mostrando finalmente il suo volto. Alma non la conosceva, ma la riconobbe. Era una di loro. Una combattente. Aveva il labbro inferiore spaccato. Uno zigomo gonfio e livido. Segni blu sul collo. Un occhio era fisso, la pupilla non si muoveva. Probabilmente era di vetro. Forse lo aveva perso durante un attacco. Non le servì altro. Aveva la risposta che cercava. Ora doveva solo resistere e continuare a camminare.
Arrivarono, dopo un tempo che le parve infinito, al limite della pineta. Gli alberi, improvvisamente, terminavano. Era talmente esausta da non sentire più dolore. Davanti a loro si apriva una distesa bianca. Sembrava ovatta. C’era una nebbiolina gelida tutto intorno. In lontananza, quasi completamente nascosta da quella foschia che aumentava ogni secondo di più, si intravedeva una casa. Una baita, forse. Le luci erano accese. Ma erano sempre meno visibili. Era come se una enorme nuvola stesse avvolgendo lentamente tutta l’area di fronte a loro.
Io non posso venire. Devo tornare indietro. Ma tu devi andare. Devi sbrigarti. Manca poco e la nebbia ti impedirà di andare oltre.
Ho freddo.
Non importa. Resisti. Se cadi: rialzati. Puoi farlo. Devi. Per noi. per tutte noi! Devi rialzarti.
Dimmi come ti chiami
Non importa. Il mio nome è quello di molte. Il mio nome è anche il tuo. Ma ora devi andare. Ricorda però di guardarti le mani.
Perché? Le mani? Non capisco.
Tu ricordalo. Ora vai! Vai. Vaiiiii!!!
La spinse con forza in mezzo alla neve. Il rifugio era sempre più offuscato. Il gelo si era impossessato delle sue gambe. Le pareva che indossasse delle morse, come quelle che si usano per bloccare le ruote delle macchine. Salivano su fino all’inguine, le rallentavano i movimenti. Era una battaglia contro il tempo, contro se stessa e contro l’irresistibile voglia di abbandonarsi e lasciarsi morire lì. Non capiva come, ma stava riuscendo a proseguire. Il fiato era ghiaccio nei polmoni. Continuava a guardarsi le mani, come le aveva suggerito la sua compagna. Non vedeva nulla, erano vuote e sempre più blu.
Mancava poco. C’era quasi. Vedeva la porta rossa d’ingresso. Le finestre illuminate. L’odore di legna che arde e riscalda. Si sentiva quasi in salvo, quando all’improvviso una scossa, una fitta lancinante le arrivò sulle reni e cadde a terra, con la faccia immersa nella neve. Svenne.
Quando riaprì gli occhi, comprese di essere tornata.
Era a casa sua, a terra, accanto al divano. L’occhio sinistro era completamente chiuso. Il destro, una fessura. Il sapore del sangue in bocca. Ne sputò un po’. Lui la stava prendendo a calci. Di nuovo quel dolore acuto. Forse le aveva rotto una costola. Sentiva la sua voce, le sue urla.
Non ti dovevi permettere! Brutta cagna! Ti ho detto mille volte che non ti devi azzardare a rispondere. La tua voce mi fa schifo. Tu mi fai schifo! Devi stare zitta! Non devi più parlare. Devi tacere!!!
Sentiva la rabbia del marito in quelle parole e sul suo corpo. Lui, con una mossa ormai collaudata, la girò a pancia all’aria e si mise sopra di lei. Conosceva bene quel passaggio. Si accingeva a darle l’ennesimo cazzotto. Probabilmente l’ultimo. Quello che l’avrebbe fatta tacere per sempre.
In cuor suo lo desiderò. Sperò che si sbrigasse e finisse tutto così. Non ne poteva più. Non voleva più. Lui, invece, indugiava su di lei, carponi, con la faccia contro la sua. Le urlava il suo disprezzo, sputandole parole e saliva che erano veleno mortale.
D’un tratto ricordò le parole della donna del sogno.
Ricorda però di guardarti le mani.
Non poteva piegare la testa, o sollevarsi. Ma percepì che stringeva qualcosa. Era un manico. Un coltello. Quello che usava per tagliare la carne cruda. Era ben affilato. Come ci era arrivato lì? Non ne aveva idea. Non le interessava saperlo. Con tutta la sua forza, con tutta l’energia che riuscì a trovare, e non sapeva come, ma fu davvero tanta, sollevò il braccio verso l’alto, ed affondò la lama nell’addome di lui. Una, due, tre, quattro volte. Quando il marito cadde di lato, a pancia in su, liberandola dal suo corpo, lei si sollevò e lo colpì di nuovo. Altre due coltellate dentro alla pancia.
Alma si allontanò.
Poco distante, seduta a terra, col respiro affannato, lo guardò.
Lo vide incurvarsi leggermente e gemere di dolore. Gli occhi erano spalancati, attoniti, stupiti da quell’inaspettato scambio di ruoli. La folle collera, l’odio che, poco prima, abitava i suoi occhi, stava diventando supplica. Vomitava versi incomprensibili e fiotti di sangue. La guardava con una preghiera negli occhi. Forse chiedeva aiuto. Forse sperava nella sua pietà.
Alma lo osservava. Gli occhi fissi nei suoi. Vide la pozza di sangue allargarsi sotto di lui, come una macchia di vino sulla tovaglia. La camicia bianca era diventata vermiglio. L’uomo si contrasse e poi, poco dopo, più nulla. Le pupille fisse verso di lei, ad osservare un punto invisibile.
Aspettò. Attese che la pozza si estendesse in maniera inequivocabile sotto di lui. Si assicurò che trascorresse ancora del tempo, quello che era necessario per respirare di nuovo, con calma. Il petto le doleva. Doveva essere la costola.
Riuscì, finalmente, ad alzarsi. Raggiunse lentamente il cellulare. Digitò il 113.
Mio marito è morto. Via dei cedri 24. Interno 8.
La voce che aveva risposto le disse di non muoversi che sarebbero arrivati immediatamente.
Lei si sedette. Scivolò nuovamente a terra. Fissò quel corpo senza vita con gli occhi aperti su un mondo ormai muto. Pochi istanti dopo, iniziò a ridere. Rise. Rise a gran voce, colta da una sensazione strana. Non credeva di ricordare cosa fosse. Continuava a ridere. Forse era impazzita. Poi, in maniera del tutto naturale, capì.
Quello che sentiva, oltre al dolore ed alla sua risata, era SOLLIEVO.
Dedicato alle anime imprigionate.
Roberta Leonardi, 25 Novembre 2020.

Come al solito un prendere il lettore per mano e fargli vedere e sentire perfino rumori e odori. Bellissimo!
Grazie davvero, Oriana…Grazie.
un bellissimo racconto, in cui la dimensione onirica della prima parte cozza con il crudo realismo della seconda. Forte e delicato nello stesso tempo.
Grazie Giovanni. Detto da te è un complimento meraviglioso.
Onorata.
Racconto molto bello ed intenso!
Per un istante mi è sembrato di essere nella pineta ed in mezzo alla neve, dalle tue descrizioni minuziose e reali.
Complimenti!
Mary, che sorpresa il tuo commento. Sono lieta di averti portato con me. È un modo diverso per stare comunque “insieme”.
Attorno a questo racconto ruota lo spettro della rabbia, del possesso e della violenza non solo fisica. Un racconto che fa molto riflettere.
Un uomo incapace di rispettare. Una storia di non amore che spinge la donna a combattere con eguale violenza per salvare se stessa. Si tratta di legittimità difesa? Una tematica molto complessa!
Ho volutamente scritto qualcosa che facesse riflettere. Un conflitto nel conflitto. Fermo restando che violenza chiama violenza e non è mai la scelta giusta.
Un caro abbraccio.
E’ stupendo riflette la realtà uniamoci per fare in modo di denunciare i nostri agazzini la nostra dignità ci sprona a farlo amiamoci si più
Stupendo … sono entrata mi ci hai portata tu con le tue parole forti, dure ma anche dolcissime … leggere i tuoi racconti è sempre un’emozione nuova.
Grazie di cuore
Grazie di cuore a te, Claudia.
Non è facile scrivere qualcosa, questa volta.
Pareva quasi di essere prima sotto la neve, poi in quella stanza.
Di qualunque cosa tu scriva, sai sempre come guidare chi ti legge in un percorso pieno di emozioni forti, che siano belle o meno, ma che toccano sempre nel profondo.
Grazie come sempre Roby.
È così bello sapere di riuscire a prendere per mano. Vuol dire percorrere un cammino insieme, oltre la distanza, oltre il tempo, oltre ogni limite fisico. È il potere immortale ed infinito della parola.
Buongiorno, amici belli!